Per contatti e prenotazioni e possibile chiamare o mandare un e-mail direttamente all’autore Giacomo Saviozzi: giacomosaviozzi@libero.it
La fotografia impone un contatto con l'uomo e il mio “raccontare” questo contatto lo impone; allora la macchina non è soltanto un oggetto ma un orecchio per ascoltare la musica del mondo. Penso che il compito di un fotografo sia quello di vedere ciò che gli altri non vedono, o perché hanno gli occhi stanchi dal troppo guardare oppure chiusi per la paura di vedere. Nei miei progetti cerco di raccontare storie semplici, quelle che sembrano “invisibili”. Ho dedicato due anni alla fotografia e alla ricerca per documentare questo nuovo libro L'interruttore del buio. Ho cercato non soltanto di scoprire le forme o le architetture dei luoghi degli ex manicomi, ma di rivelarne soprattutto i rumori, le sensazioni, la paura, l'angoscia…
Il titolo L'interruttore del buio è nato dall'idea che l'istituzione totalizzante del manicomio ha annullato e spento, un po' come un interruttore, migliaia di persone. La logorante e involutiva vita del manicomio, con i suoi ritmi sempre uguali, anonimi, amorfi e ritualizzati è stata fino al 1978 anno dell'approvazione della Legge 180 detta Basaglia - una sorta di lager dove il malato mentale veniva confinato lontano da tutti. Gli veniva tolta ogni forma di dignità, di contatto umano. I rapporti con l'esterno non erano più possibili; grate, sbarre, reti, dividevano il “normale” dal matto. A distanza di trent'anni, quelle strutture ormai fatiscenti trasudano ancora lacrime e urla strazianti, placate dalle inumane terapie elettriche. Tra mura screpolate, finestre in frantumi, resti di passato, di vite, ho intrapreso un viaggio fotografico alla riscoperta di una verità molto spesso taciuta, una verità che la mia generazione non ha vissuto e quindi non conosce.
Tra le pagine del graffito di Oreste Nannetti, a Volterra, tra le porte blindate dell'O.p.g. di Reggio Emilia, attraversando le pagine delle Libere donne di Magliano del Prof. Tobino a Maggiano vicino a Lucca, oppure tra gli scorci di mare a Pratozanino, è nato questo reportage che inizia con le foto degli uomini, o meglio, di ciò che l'istituzione ha lasciato degli uomini: foto tessere, cartelle cliniche, dove si leggono le motivazioni di una reclusione spesso assurda. Leggere: nessuna cura - eccitamento maniaco - epilessia - serenase morte per decubito. Leggere i nomi, le classificazioni, vedere che piano piano anche l'uomo si spegne con “l'interruttore”. Al suo posto, luoghi dove la luce a distanza di anni ancora si affaccia timidamente dai finestroni chiusi. Il reportage si snoda tra il buio delle camerate, i letti in fila, le celle degli ex ospedali psichiatrici di Volterra e di Reggio Emilia, tra le immagini sacre, dissacrate dal tempo, abbandonate. Sfogliando il libro si arriva, in un crescendo di sensazioni dolorose e di abbandono, al “cimitero dei matti”: croci divelte, erba alta, pochi nomi, come se stessero lì a testimoniare che anche nella morte si è consumato l'abbandono. Nell'ultima immagine, una croce e un fiore di campo tentano di ridare dignità almeno alla loro morte
Tratto dall’intervista pubblicata sul numero di dicembre della Rivista FOTOIT organo della FIAF
Per acquistare il libro è sufficiente contattare l'editore
Tutto si trasmette attraverso le mani e, su ciò che toccate, lasciate dovunque delle tracce che soltanto voi potete imprimere. Il fatto che sulla base delle impronte digitali di possa scoprire l’identità di quella persona, e che nell’umanità intera non vi siano due impronte identiche, dimostra che la mano è in grado di esprimere il carattere unico di ogni essere. (Anonimo)
L’INTERRUTTORE DEL BUIO
Un clic e l’interruttore spegne la luce, porta il buio dell’oblio. Un altro clic e si accende la luce polverosa della memoria, molto diversa da quella cui siamo abituati perché ha una vettorialità ed una consistenza diverse: filtra attraverso la memoria ed è soffusa.
È con l’ausilio di questo tipo di luce che Giacomo compie il suo lungo tragitto nel passato delle vite che hanno popolato questi luoghi bui, dove sono state lentamente e miserabilmente spente, per ricostruirle attraverso tasselli impersonali
Per comprendere una storia occorre anche che il lettore collabori all’interpretazione del testo stesso, in altre parole un lettore ideale già previsto dal testo. Ecco allora che dobbiamo tentare, almeno per un attimo, di metterci nei panni di un malato mentale immaginandoci come possa essere il suo risveglio mattutino.
“Le lame di luce filtrano attraverso le imposte ad avvisare che un nuovo giorno si affaccia sulla nostra vita. La prima domanda che sovviene nella mente è “Che giorno sarà oggi?” Sarà felice, pieno di vita, di energia o sarà come uno dei tanti che si susseguono indistinti l’uno dall’altro, impregnato da quella sensazione di stare appesi a un filo che rischia di rompersi in ogni istante sprofondandoci nel buio di un’esistenza senza scopo, di aver una ragione per viverlo, con l’ansia di voler essere voluti?” L’identità è il filo rosso che ci condurrà -come il filo di Arianna- lungo la scoperta di questo mondo labirintico.
Cos’era un manicomio? Dal Garzanti 2004 alla voce Manicomio s.m leggiamo: 1. istituto in cui si ricoveravano i malati di mente (era detto anche ospedale psichiatrico); ancora impropriamente usato per indicare luoghi o istituzioni per la cura di disturbi mentali).
I manicomi erano luoghi di perdita dell’identità e una possibile loro ricostruzione diventa lunga e difficile: solo fototessere “allegate” a scheda diagnostiche –numerate in ordine crescente- possono operare la distinzione tra una persona e l’altra. Un falso senso di ordine che rivela al contrario un caos indistinto non dissimile a quello che è presunto essere nella mente del malato, il cui destino è già stato infelicemente deciso da altri esseri umani, ancor prima che i referti fossero scritti.
Queste fototessere mostrano ritratti di uomini normali, a volte di persone corrucciate o sul cui viso pende una maschera straniata e straniante; simulacri che avrebbe fatto la gioia del Lombroso teso a dimostrare come lo sguardo o le dimensioni del cranio potessero distinguere gli uomini dai non-uomini, i sani dai mentecatti.
Dalla penombra dei carteggi emerge la scritta “Nessuna cura” vergata in fretta, ma con una calligrafia corsiva quasi elegante. Come pesano queste due parole fredde, gravi e che non concedono speranza alcuna! Povera Lolita nel tuo nome proprio evidentemente non portavi il destino… Alle carte si sovrappongono altre carte, sempre più pesanti, quasi a soffocare l’anelito di speranza che si sprigionava dalle bocche impastate da un sonno sintetico. In alcuni brani, alle parole Giacomo giustappone altre parole come “reinserimento”, “terapia” o “smantellamento” tratte dal diario del Prof. Mario Tobino che vanno a rafforzare il senso di cecità –che nasconde l’impotenza- della medicina nei confronti della malattia.
Un paio di occhiali da vista si sovrappone ad una cartella intestata a Pasqua Lino o Pasqualino: sembra irrilevante, ma nell’inserimento di uno spazio tra i due nomi nasce un divario abissale che si palesa nel provare o non provare affetto: il primo è un mero elemento –che può appartenere a tante persone- di un elenco in ordine alfabetico; il secondo richiama alla memoria una famiglia che ha amato, ha avuto una forte intimità affettiva con la persona per la quale ha coniato un diminutivo-vezzeggiativo.
Guardando le diagnosi che si richiamano come in un girotondo infantile –e si sa quanto i bambini possano essere crudeli- oggi ci viene quasi da sorridere: ai numeri 204 e al 211 corrisponde l’insonnia così diffusa ai nostri tempi, da non far parlare quasi più di sé. Eppure, in quei tempi non tanto lontani, un essere vivente era rinchiuso in una struttura anche per questo. È proprio in questi attimi fuggenti che il ruolo della memoria acquista importanza; nel vedere se e come il mondo è cambiato in un così breve lasso di tempo. E allora no, non bisogna assolutamente dimenticare.
Il nostro autore questo l’ha già ben capito e ci tiene incollati all’obiettivo della sua macchina fotografica, ma soprattutto legati alla sua sensibilità, al suo processo di percezione, nel rilevare tracce e documentare un passato che non vuole cadere nell’oblio.
Lo seguiamo nell’esplorazione dei vari ambienti, nello scoprire e soffermarsi su reperti archeologici cristallizzati in una dimensione atemporale: le calzature, le suppellettili, i letti portano ancora le impronte ed il calore di chi li ha indossate e usati sembrano essere nella attesa di qualcuno che torni a “viverle”. Del resto, se questi oggetti non fossero collocate in quel ambiente -su cui incombono freddo, umidità e disordine- essi potrebbero essere quelli che sono tuttora parte del nostro quotidiano.
L’ambiente che non mostra tracce di decadimento è il laboratorio che, simile all’antro di un Dr. Faust immerso nel suo delirio di onnipotenza, ci fa ripiombare in una realtà diversa. Vediamo ampolle e bottiglie etichettate ben allineate sulle scaffalature contenenti chissà quali panacee pronte a ridare la ragione a chi l’ha persa; a loro si giustappongono, in un confronto insostenibile, grandi vasi di vetro colmi di formalina che racchiudono encefali e feti idrocefali tracce evidenti di vite mancate. Apparecchiature per l’elettroshock testimoniano la fallacia umana: là dove la cultura non riesce a vincere la natura, la vita si spezza.
Gli unici luoghi in cui l’individualità riemerge sono le scalfitture a palinsesto sui muri, i disegni primitivi –issati come stendardi su una selva di rami- che evocano le creature mostruose partorite da menti offuscate vogliono essere la voce di chi voce non ha più. Con il tempo sono caduti i ricordi di tempi felici, così come la vernice che si stacca a scaglie secondo un disegno impreciso. Simile a un bassorilievo di una tomba arcaica, sulle pareti si snodano lunghe linee di rappresentazioni grafiche ermetiche che gridano il dolore di chi le ha incise, ma che trasudano anche la speranza cercata forse nell’abbandono nelle mani di un qualche santo o forse di un dio clemente. Quegli uomini, quelle donne avevano chiuso con gli altri, avevano chiuso con loro stessi: non c’erano persone più straziate.
La luce che fa uscire gli oggetti dal loro abbandono dalla loro oscurità è della stessa natura di quella che ha abbandonato la mente di coloro che sono così divenuti deboli, molli ed esangui. Le porte, gli usci, le chiavi, le reti e le sbarre proteggono dalle incursioni esterne, ma allo stesso tempo sono di impedimento ad una visione chiara e non concedono di procedere nel cammino, lasciandoci inermi con la mente affollata dai pensieri più malinconici ed il cuore gonfio di tristezza. Come loro, anche noi non abbiamo nessuna possibilità d’incontro: eppure anche essi volevano comunicare, lasciare una traccia, una memoria del loro passaggio.
Sul fondo di un corridoio, oltre tutti gli ostacoli, si intravede la luce e immerso in essa un giardino in cui la dimenticanza si sovrappone al destino di un ritorno nel grembo della loro vera ed unica mater consolatrice, quella natura che li farà rinascere liberi come il selvatico fiore che può guardare il sorgere del sole e rimirare il cielo notturno disseminato di stelle. Ritornato nelle braccia della natura l’uomo ha riconquistato la sua agognata libertà: nessuno potrà più imporgli il suo volere, decidere per lui il suo destino, perché come sempre ha vinto la morte-vita, come quel Cristo staccato dalla croce che sembra involarsi verso il cielo.
Nelle ultime pagine del suo racconto incontriamo Tullio. Ha passato quasi tutta la sua vita tra quelle pareti ed ora che è libero vi ritorna perché non ha altro luogo, una famiglia presso cui rifugiarsi. Secco e caduco come le foglie che riempiono quei freddi stanzoni, egli ripete, giorno dopo giorno, anno dopo anno, il gesto di spazzarle via come i cattivi pensieri che forse lo hanno ossessionato da sempre. Del resto egli non conosce altro luogo se non questo che gli appare come il migliore dei mondi possibili.
Giacomo Saviozzi ha più volte affermato di usare la fotografia come medium per raccontare storie. Se guardiamo attentamente le fotografie che compongono questo suo lavoro, ci accorgiamo come la loro scansione orizzontale sia la stessa che caratterizza un testo scritto e come questo possieda un vocabolario, una grammatica ed una sintassi che vanno a costituire un linguaggio fotografico, che a tratti diventa metalinguaggio.
Il lavoro che Giacomo ci presenta in queste pagine mostra una matrice progettuale molto forte. Si riconoscono letture di libri, di articoli e di immagini fotografiche di altri autori che hanno trattato lo stesso tema, ma che non sono mai citati direttamente, il cui lavoro, al contrario, è stato metabolizzato, sedimentato e rielaborato secondo la sua poetica molto personale. Nonostante le evidenti difficoltà che questo tipo di documentazione può comportare, Giacomo ha saputo destreggiarsi con rispetto, rigore, perizia e intelligenza in questo territorio evitando facili trabocchetti retorici, pietistici o pregiudizievoli. La realtà ci è presentata per quella che è, in tutte le sue sfumature e in tutti i suoi particolari, senza mai cercare immagine d’effetto: egli lascia al lettore trarre le debite conclusioni qualunque esse siano.
Quello che appare evidente è la forte carica motivazionale che lo ha spinto a realizzare questo lavoro e, al tempo stesso, anche d’affezione verso questo mondo che si tenta di far scomparire e soprattutto verso le ombre dei suoi antichi abitanti per i quali sembra che egli si senta in debito e voglia restituirgli non una voce, ma la loro voce.
La narrazione scorre tesa, senza sbavature o iterazioni padrone quale è del mezzo e del soggetto che ha inteso affrontare. Il racconto è esaustivo, coinvolgente e, alla fine, lascia molto spazio da riempire al lettore che si trova obbligato a riflettere su quanto gli è stato sottoposto. Questo è lo scopo che chi si dedica al reportage dovrebbe sempre prefiggersi: un’oggettività che lascia spazio alla soggettività di chi sfoglia, guarda, legge.
Le fotografie che compongono questo lavoro sono state scattate in vari manicomi dislocati lungo la penisola italiana, ma stranamente non si notano fratture spaziali a dimostrazione che, ancora una volta, il malato mentale non è mai stato considerato nella sua singolarità, ma come parte conforme di una specie cui erano attribuite certe specificità.
La follia non è mai a senso unico, ma si muove tra due polarità ben precise; da una parte coloro che la società stigmatizza come malati mentali, dall’altra coloro che decidono i parametri della malattia e della sua cura. Alla luce del lavoro di Giacomo –e di tanti altri prima e dopo di lui- sorge spontanea la domanda: chi e dove sono i veri alienati?